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Pesticidi nelle acque: se ne trovano in 3 punti su 4, con percentuali in crescita; i valori sono al di sotto dei limiti

Pesticidi nelle acque: se ne trovano in 3 punti su 4, con percentuali in crescita; i valori sono al di sotto dei limiti

In relazione alle esigenze di sanificazione dei luoghi di vita e di lavoro si è parlato spesso in questi mesi, anche in diversi nostri articoli, della possibilità dell’utilizzo dell’ozono con riferimento sia ai vantaggi che ai rischi correlati.

Ricordiamo che da un punto di vista normativo in Italia “l’ozono può essere commercializzato ed usato esclusivamente come sanificante; per l’eventuale uso come disinfettante vale a dire come prodotto specificamente atto a combattere (ridurre, eliminare, rendere innocui) i microorganismi occorre attendere il completamento della valutazione a livello europeo ai sensi del Regolamento (UE) 528/2012 (BPR) sui biocidi”.

Inoltre l’ozono è da considerare “una sostanza pericolosa sia per le sue proprietà intrinseche fisiche che per quelle tossicologiche ed ecotossicologiche. I principali effetti tossici dell’ozono sono riconducibili alle stesse proprietà che ne determinano l’efficacia, vale a dire la capacità di agire come agente ossidante. Questo meccanismo di tossicità provoca danno alle membrane cellulari con lesioni dei tessuti direttamente esposti: sistema respiratorio, occhi, mucose, cute”. In particolare studi epidemiologici “hanno documentato effetti infiammatori e una maggiore suscettibilità alle infezioni respiratorie associati all’uso di ozonizzatori per la purificazione dell’aria, soprattutto da parte di soggetti vulnerabili come i bambini”. E i dati disponibili indicano che “gli effetti tossici dell’ozono possono insorgere in seguito a esposizione prolungata a concentrazioni di ozono in aria superiori a 0,1 mg/m3”.

A parlare, in questi termini, dei rischi dell’ozono è un recente Rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) dal titolo “Focus on: utilizzo professionale dell’ozono anche in riferimento a COVID-19. Versione del 23 luglio 2020” (Rapporto ISS COVID-19 n. 56/2020). Un documento che ha la finalità di fornire “le evidenze tecnico – scientifiche ad oggi disponibili sull’ozono nel contesto epidemico COVID-19”. E a tale scopo riporta “lo stato dell’arte con particolare riferimento a: status regolatorio, valutazioni disponibili a livello nazionale e internazionale, informazioni sui pericoli e rischi connessi all’uso dell’ozono, informazioni sulla tossicità e l’impatto sulla salute umana e sull’ambiente, efficacia della sostanza come virucida, sicurezza d’uso e precauzioni da adottare nella generazione in situ di ozono nel campo della prevenzione e controllo del SARS-CoV-2”.

Indicazioni sui pericoli dell’esposizione all’ozono

Il Rapporto – a cura del Gruppo di lavoro ISS-INAIL – ricorda che al di là delle indicazioni già presentate a inizio articolo sui pericoli, “riguardo agli effetti a lungo termine, l’ozono è uno dei componenti dell’inquinamento atmosferico che è classificato come cancerogeno di Gruppo 1 (Cancerogeno per l’uomo) dalla IARC (2016)”.

Per contro, “la IARC non ha finora effettuato alcuna valutazione sistematica della potenziale cancerogenicità dell’ozono in quanto tale. Nel 2020 l’US EPA ha concluso che non vi sono evidenze adeguate per concludere sulla presenza o meno di una relazione causale tra l’ esposizione a ozono e il rischio di cancro. Tuttavia, nelle acque contenenti lo ione bromuro, il trattamento con ozono può indurre la formazione di bromato che è un composto potenzialmente cancerogeno. Considerando la potenziale criticità ove vi sia un’esposizione umana prolungata, nelle acque trattate con ozono, la formazione di bromato non deve eccedere il valore guida provvisorio di 10 μg/L, proposto dalla WHO (2017) e adottato nella proposta di rifusione della Direttiva UE sulla qualità delle acque destinate al consumo umano (2019)”.

Inoltre, continua il Rapporto, altri pericoli comprendono “il danno ossidativo ad alimenti, attrezzature e altri materiali presenti negli ambienti trattati: in particolare, un’alterata funzionalità delle attrezzature di lavoro può essere associata a rischi per la salute. Occorre inoltre menzionare la tossicità per gli organismi ambientali (ecotossicità), in particolare acquatici”.

A prescindere poi dall’ uso come sanificante, “esiste un’esposizione a ozono negli ambienti indoor: le concentrazioni dipendono da sorgenti interne (es. stampanti, fotocopiatrici), ricambio dell’aria, reazioni con altri inquinanti indoor e contributo outdoor. Negli ambienti indoor l’ozono può interagire con i composti organici volatili emessi da materiali e prodotti di largo consumo: questo può portare alla produzione secondaria di sostanze tossiche (es. formaldeide) e di PM10 e PM2,5, contribuendo alla tossicità inalatoria dell’ozono. In assenza di specifiche sorgenti indoor il rapporto indoor/outdoor di ozono è stato stimato in un intervallo tra 0,2 e 0,7”.

Classificazione di pericolo e valori di esposizione professionale

Si indica che in merito alla classificazione di pericolo nell’ambito del Regolamento 1272/2008 (CLP), riguardante la classificazione di pericolo di sostanze e miscele, “non è stata effettuata una classificazione armonizzata dell’ozono nell’Unione Europea. Sempre in Europa, nell’ambito del Regolamento (CE) 1907/2006 (REACH), concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche, le imprese interessate alla registrazione dell’ozono hanno presentato una proposta di classificazione (autoclassificazione) come sostanza che: può provocare o aggravare un incendio; letale se inalata; provoca gravi ustioni cutanee e gravi lesioni oculari; provoca danni agli organi in caso di esposizione prolungata o ripetuta per via inalatoria; molto tossica per l’ambiente acquatico con effetti di lunga durata”.

Per quanto riguarda la salute dei lavoratori, “l’Unione Europea non ha fissato alcun valore limite indicativo di esposizione professionale (IOELV, Indicative Occupational Exposure Limit Values) sebbene alcuni Stati membri abbiano stabilito valori limite nazionali per esposizioni occupazionali sia a breve che a lungo termine”. E a livello nazionale “l’allegato XXXVIII del DL.vo 81/2008 non include alcun Valore Limite per l’Esposizione Professionale (VLEP) all’ozono. Tuttavia in assenza di valori nazionali e comunitari, nel quadro normativo italiano, il riferimento – analogamente a quanto adottato da altri Stati Membri della UE – è rappresentato dai TLV®–TWA dell’American Conference of Governmental Industrial Hygienists (ACGIH) che ha stabilito per l’ozono differenti valori in relazione al carico di lavoro e alla durata cumulativa dell’esposizione, in considerazione dei volumi di aria inspirata. A titolo di esempio, il valore limite per una giornata lavorativa di 8 ore varia da 0,1 (lavoro pesante) a 0,2 (lavoro leggero) mg/m3”.

Inoltre le linee guida WHO per la qualità dell’aria outdoor “raccomandano un valore guida di 100 μg (0,1 mg)/m³ per 8 ore, sostanzialmente sovrapponibile ai parametri raccomandati da ACGIH”.

L’efficacia dell’ozono e il controllo del rischio

Il rapporto, come già indicato a inizio articolo, si sofferma sull’uso dell’ozono in contesti differenti.

Riguardo alla sua efficacia si indica che l’ozono “è in grado di degradare rapidamente i composti organici (sanificazione); a concentrazioni generalmente più alte è in grado anche di disattivare rapidamente una vasta gamma di agenti patogeni (batteri, comprese le spore, virus, protozoi)”. Tuttavia le condizioni operative “devono essere attentamente selezionate poiché l’efficacia dei processi di ozonizzazione varia significativamente in funzione delle caratteristiche dell’ambiente da sanificare, nonché di possibili controindicazioni (es. danno ossidativo a prodotti o ad attrezzature)”.

Riguardo poi l’efficacia contro il SARS-CoV-2, il Rapporto indica che “un’azione disinfettante è, in linea di principio, del tutto plausibile considerando i meccanismi di azione dell’ozono. Per contro, non sono disponibili al momento dimostrazioni dirette dell’efficacia ottenute in studi controllati: questa carenza di informazioni validate non è limitata all’ ozono, ma è comune a diversi principi attivi in valutazione come Biocidi”.

Il documento si sofferma poi sul controllo del rischio. Si ricorda che i generatori di ozono “vengono correntemente promossi come dispositivi impiegabili per la sanificazione degli ambienti di lavoro” e sul mercato “vi è un’ampia disponibilità di prodotti con differenti caratteristiche e capacità produttiva a seconda dell’impiego cui sono destinati”.

In ogni caso “prima di ricorrere all’utilizzo dell’ozono per il trattamento di locali è necessario valutare il rischio di esposizione sia degli operatori preposti alle operazioni di sanificazione, sia del personale che fruisce dei locali sanificati. Gli operatori devono essere addestrati ed esperti e provvisti di idonei Dispositivi di Protezione Individuali (DPI)”.

Chiaramente la tossicità e l’azione ossidante dell’ozono “rappresentano un fattore limitante per il suo utilizzo. Questo ha stimolato lo sviluppo di sistemi per la decomposizione istantanea dei suoi residui rinvenibili negli ambienti indoor a seguito dell’uso di dispositivi in grado di generarlo. Le tecnologie convenzionali per la sua rimozione dall’aria si basano sull’impiego di filtri a carbone attivo o di catalizzatori a base di metalli nobili o di ossidi di altri metalli di transizione. Tra le tecnologie emergenti è particolarmente promettente l’ossidazione fotocatalitica”.

Le sostanze chimiche inquinano le nostre acque, ce lo ricorda il rapporto “H2O – La chimica che inquina l’acqua” da poco pubblicato dall’associazione ambientalista Legambiente. Nell’articolo di Simonetta Lombardo, pubblicato sul sito Cambia la terra, che riproponiamo, si analizzano i dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra).

Aumenta la diffusione della contaminazione di pesticidi nelle acque superficiali e profonde. Nel 2018 sono stati trovati residui di pesticidi nel 77% dei punti di campionamento delle acque superficiali e nel 36% di quelle sotterranee. In altre parole, in oltre tre punti di campionamento su quattro dei fiumi e dei laghi del nostro Paese si registra presenza di pesticidi derivanti soprattutto dall’uso agricolo. È un trend in ascesa: nelle indagini precedenti, relative al 2016, la presenza di pesticidi si rilevava nel 67% dei punti delle acque superficiali e nel 33% di quelle sotterranee.

È quanto emerge dai dati riportati nell’Annuario dell’Ispra, presentato all’inizio di giugno, mentre è in via di pubblicazione il report completo sui pesticidi nelle acque elaborato dalla stessa istituzione. “I dati evidenziano una presenza diffusa della contaminazione da pesticidi. Questo dipende anche dal fatto che i controlli sono migliorati sia in termini di copertura territoriale, sia in termini di sostanze cercate. È ragionevole ipotizzare che con il miglioramento delle indagini, specialmente in certe regioni del centro-sud del Paese, verrà alla luce una contaminazione finora non rilevata”, anticipa Pietro Paris, responsabile della sezione sostanze pericolose dell’Ispra e coordinatore del Rapporto nazionale sui pesticidi nelle acque. “Nella maggior parte dei casi le concentrazioni sono basse e inferiori ai limiti stabiliti dalle norme ambientali. Tuttavia, tenendo conto delle lacune conoscitive, è importante evidenziare anche la presenza a basse concentrazioni di queste sostanze, che sono generalmente prodotte artificialmente e non presenti naturalmente nell’ambiente”.

Non si tratta di affermazioni tranquillizzanti. La legislazione europea in materia di pesticidi è tra le più avanzate del mondo; di fatto, però, il monitoraggio dimostra che la normativa da sola non è sufficiente a prevenire lo stato di contaminazione delle acque. Ci sono diverse ragioni. In primo luogo gli studi e le previsioni fatte nella fase di autorizzazione delle sostanze non sempre si dimostrano adeguati a rappresentare quello che viene chiamato il destino delle sostanze nell’ambiente. D’altro canto, una delle norme che più dovrebbe essere efficace nel controllare l’impatto dei pesticidi (la direttiva sull’uso sostenibile) stenta ad essere calata sul territorio. Come riconosciuto dalla stessa Commissione europea: “È necessario che gli Stati membri adottino tutte le necessarie misure appropriate per promuovere e incentivare una difesa fitosanitaria a basso apporto di pesticidi, privilegiando ogniqualvolta possibile i metodi non chimici”.

“I limiti per i pesticidi nelle acque potabili nascono più di 20 anni fa, con la direttiva 98/83/CE attualmente in fase di revisione: 0,1 microgrammi/litro per una singola sostanza e 0,5 microgrammi/litro per il totale delle sostanze nelle acque”, spiega Paris. “Questi valori all’epoca rappresentavano la capacità analitica dei laboratori, e la volontà del legislatore era chiara: ’per quello che riusciamo a controllare, non ci devono essere pesticidi nelle acque destinate al consumo umano.’ Dietro tali limiti non c’era, infatti, una valutazione tossicologica particolare, quanto una volontà di cautela di fronte ai rischi di sostanze progettate per uccidere organismi che vengono reputati dannosi alle attività umane. Ma i meccanismi fondamentali della vita sono simili per tutti gli organismi, e nemmeno l’uomo è al riparo dagli effetti negativi dei pesticidi”.

I limiti fissati, quindi, sono sostanzialmente convenzionali, ma non è affatto detto che tutelino sempre la salute umana. Le sostanze mutagene, quelle cancerogene, quelle tossiche per la riproduzione, non hanno generalmente limiti di sicurezza (sono definite sostanze “senza soglia”), perché la loro tossicità è provata anche in presenza di dosi bassissime. Lo stesso accade per certe sostanze di particolare rilevanza ambientale, quali le sostanze persistenti, bioaccumulabili e tossiche (Pbt), per gli inquinanti organici persistenti (Pop), che rimangono nell’ambiente e si possono trovare anche a grande distanza dalle zone di utilizzo, fino nelle aree polari.

Molte delle sostanze indicate nella convenzione di Stoccolma sui Pop sono pesticidi, la cui pericolosità, purtroppo, è stata riconosciuta solo a posteriori, dopo anni di utilizzo massiccio. “C’è poi da aggiungere – aggiunge Paris – che molto spesso nei campioni di monitoraggio si trova un cocktail di sostanze di cui non si conosce l’effetto complessivo, che può essere di tipo additivo ma anche sinergico, cioè molto superiore a quello determinato dalle singole sostanze. Come riconosciuto dagli organi scientifici della stessa Commissione Europea, una delle lacune maggiori nella valutazione del rischio delle sostanze chimiche è che non viene considerato l’effetto delle miscele di sostanze che si possono formare nell’ambiente, di cui generalmente non si conosce neanche la composizione.  “Solo per fare un esempio, se ci sono sostanze che nel corpo umano vanno a colpire il fegato, un organo che ha una funzione disintossicante, l’introduzione di una seconda sostanza tossica potrebbe avere un effetto molto più alto”, aggiunge il responsabile Ispra.

Sembrerebbe una situazione di rischio da cui è difficile uscire. “La verità è che l’utilizzo dei pesticidi si basa su un compromesso molto fragile, perché si tratta di sostanze pericolose intenzionalmente rilasciate nell’ambiente. In Italia se ne utilizzano circa 130 mila tonnellate ogni anno, non possiamo stupirci di trovarne nei corpi idrici, come anche in altre matrici ambientali. Ci sono sostanze tossiche anche a concentrazioni estremamente basse, come nel caso degli insetticidi neonicotinoidi, ad esempio, l’Imidacloprid ha una tossicità anche a millesimi di microgrammo/litro. Lo sversamento di una quantità modesta può distruggere l’ecosistema di un corso d’acqua”, rileva Paris. Gli insetticidi neonicotinoidi sono considerati tra le principali cause della perdita di biodiversità. Recentemente sono stati banditi in Europa, ma per anni se ne è fatto un uso massiccio, che avrà ripercussioni ancora a lungo.

In realtà, sulla questione dei limiti dei pesticidi nelle acque potabili e della continua ascesa dei record negativi su questo fronte sembra di fatto esserci una convergenza di diversi interessi abbassare l’attenzione pubblica e la stessa azione dei legislatori. A cominciare da un dossier patrocinato dall’associazione SETA-Scienza e tecnologie per l’agricoltura che chiede ai decisori politici di alzare i limiti dei pesticidi nelle acque, perché non si riesce a rispettarli.

“I limiti delle acque potabili, peraltro confermati anche nella proposta di revisione normativa in corso, hanno un razionale basato sul principio di precauzione e la loro validità non dovrebbe essere messa in discussione. Sarebbe da irresponsabili. Non si ha piena consapevolezza dei rischi tossicologici e ambientali di queste sostanze, della loro reale persistenza nell’ambiente, non è ancora adeguatamente noto lo stato della contaminazione. Ancora oggi troviamo sostanze bandite da anni, l’esempio più noto è quello dell’atrazina, vietata 30 anni fa e ancora largamente presente nelle acque in particolare nella Pianura Padana”.

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